domenica 28 settembre 2008

Il cavaliere della valle solitaria

Il cavaliere della valle solitaria (Shane)di George Stevens. USA,1953 Interpreti: Alan Ladd, Jack Palance, Jean Arthur, Van Heflin



Enzo 5 aprile 2007 su Abbracci e popcorn

...Andrò molto lontano …perchè Shane?…un uomo ha la sua via tracciata non può cambiarla… non avrei dovuto dimenticarlo…
Shane spiega così al piccolo Joey perché se ne va dopo aver riportato l’ordine nella valle e il film si conclude come era iniziato, con il cavaliere errante che solitario riprende il cammino sulla strada del suo destino.
Se nel cinema western c’è un film anomalo nella normalità è proprio il Cavaliere della valle solitaria (Shane nell’originale). Il film si avvale di tutti gli elementi classici per un racconto della frontiera. Le montagne, la valle, i pascoli, gli allevatori, i contadini, la legge del più forte, l’eroe buono che porterà giustizia. In realtà la fotografia, i personaggi, l’evolversi della storia sono l’antitesi a qualsiasi idea di mitizzazione del West e della sua epopea. Fin dalle prime inquadrature si entra in un mondo fatto di fatica, di sudore di lotta per vivere. Il film malgrado la fotografia (che prese l’Oscar) è cupo. Come è cupa la vita dei coloni. Certo c’è il cattivo allevatore che vuole solo per sé la terra che ha fatto sua arrivando per primo e combattendo contro gli indiani, ma poi ci sono i contadini. Sono loro al centro di tutto. C’è un mondo che grazie a loro si trasformerà in comunità. I coloni sognano e lavorano per un futuro in cui la comunità vince su una natura difficile, dura. Il fango è il simbolo di una terra che esige fatica, sudore, ma anche morti. Infatti il contadino Frank Stonewall Torrey (interpretato da Elisha Cook Jr.) si farà ammazzare in duello da Wilson il pistolero vestito di nero (Jack Palance). Scena magistrale in cui il regista utilizza la cinepresa per dirci che la sorte di Torrey è segnata, infatti Wilson lo domina sempre dall’alto. Non solo perché è di gran lunga più grande, ma anche perché è in piedi davanti al saloon, mentre Torrey nella strada più in basso procede con difficoltà in mezzo al fango. Lo scontro è già perso dal punto di vista psicologico e nei fatti, ma Torrey non rifugge al suo destino e si avvia verso la morte. Ma la storia prosegue e lo scontro tra il bene e il male prende corpo fino ad arrivare al duello finale tra Shane (Alan Ladd) e Wilson . Ovviamente il bene prevarrà e i coloni potranno impegnarsi nella costruzione del sogno americano.
Sarebbero tante altre le cose da dire, ma non voglio farla lunga. Mi piace però riprendere il tema del destino, che è l’altro grande tema di cui ci parla il regista. C’è il destino dei coloni, cioè di coloro che sono chiamati a creare il loro futuro e quello del paese, e c’è il destino dell’uomo. Il destino cioè di Shane che è condannato a cavalcare alla ricerca di… Per un attimo Shane crede di essere arrivato alla fine del suo peregrinare, crede di poter fermarsi dentro una calda casa, magari di avere anche lui una donna da amare. La famiglia di Joe Starret (Van Heflin) gli fa dimenticare che la sua strada è tracciata. Però la realtà dura degli eventi lo costringerà a riprendere le pistole e ad affrontare il cattivo Wilson nel duello finale. Compiuto il suo dovere riprende il cavallo e si avvia verso l’orizzonte. L’ordine è stato ristabilito il cavaliere solitario può riprendere il cammino, “l’uomo ha la via tracciata e non può cambiarla”... ma è proprio così? Ad ascoltare Woody Allen (in Macht point) non è così: dipende da dove cade la pallina.

Marie Antoinette

Marie Antoinette di Sofia Coppola. USA, 2006 Interpreti: Kirsten Dunst, Marianne Faithfull, Steve Coogan, Judy Davis, Jason Schwartzman



Manuela 4 aprile 2997 su Abbracci e Popcorn

Ho l’impressione che in questo blog – ma forse non solo – ci sia bisogno di un po’ di leggerezza (e di attualità). E Marie Antoinette è un film disegnato con mano leggerissima, con tratto adolescente, scanzonato a volte, a volte imbronciato. E però, è un film claustrofobico. Tutto è visto dall’interno, come dovevano vederlo gli occhi stessi di Maria Antonietta, che niente vedevano oltre le mura di Versailles.
L’adolescente regina di Francia, rinchiusa nella sua lussuosissima prigione, inventa giochi e trastulli: vestiti e scarpe, dolciumi e teatrini, pettegolezzi e bambole. Favole per non morire di noia, un villaggio in cui travestirsi da contadina, un amante da idealizzare – è bellissima l’inquadratura dell’amante sul rampante cavallo bianco, eroe archetipo delle fantasticherie romantiche. Come ho trovato straordinaria la sequenza della prova di abiti e scarpe, sottolineata da una scatenata musica rock.
Pochi e distorti arrivano nella reggia gli echi di ciò che accade fuori, anche alla fine, quando la storia, quella vera, è evocata solo dai sinistri bagliori delle torce e dall’indistinto rumoreggiare della folla. La separatezza fra il mondo “di dentro” e quello “di fuori” è incolmabile e senza alcuna possibilità di comunicazione.
E’ un film, a suo modo, disperato. Marie Antoinette morirà, probabilmente senza capire ciò che le succede e perché. Come ha accettato, probabilmente senza capirli, tutti gli eventi della vita, dal marito insoddisfacente ai figli. E l’ultima inquadratura è ancora un’inquadratura “da dentro”. Da dentro una carrozza che attraversa un mondo inconoscibile e ostile.
Nelle recensioni c’è scritto che si tratta della storia di una giovane donna. E’ senz’altro così. Eppure io, lontanissimo dalla volontà dell’autrice, ne sono sicura, non ho potuto fare a meno di pensare a una classe politica che conosco bene, che se ne sta chiusa in una sua Versailles – di certo meno bella dell’originale – a trastullarsi coi suoi giochi: leggi elettorali pensate per mantenere se stessa, unioni e scissioni, dichiarazioni e smentite, talk show e giochi delle parti. Del tutto separata da quello che avviene altrove, nella realtà, e forse inconsapevole della realtà stessa. Sorpresi, anzi, dagli echi che ne filtrano, e dall’immagine che le persone reali hanno della loro casta (Marie Antoinette stupita dal pamphlet satirico “Che mangino brioches, io non l’ho mai detto!”, Fassino: “Pare che l’indulto non sia stato apprezzato…”).
Lo so che Sofia Coppola non c’entra niente con tutto questo, colpevole solo di aver fatto un film giovane, originale, sorridente e pensoso, che forse parla solo di una giovane donna in una prigione dorata. Ma a volte nei film c’è anche quello che l’autore non ci ha proprio voluto mettere.

La Rosa purpurea del Cairo

La Rosa Purpurea del Cairo di Woody Allen. USA, 1975 Interpreti: Mia Farrow, Jeff Daniels



Manuela 29 marzo 2007 su Abbracci e Popcorn

Per molto tempo non ne ho parlato, per evitare i sorrisetti di compatimento di chi lo liquidava come uno dei soliti film d’amore, leggerini, gradevoli magari, ma niente di che, mille miglia lontano dai film che fanno pensare davvero. Roba da donna, ecco.
Ho tenuto per me la bellezza dello schizzo d’ambiente, tratteggiato a matita, che con pochi segni racconta un mondo. Ho tenuto per me l’incanto di Cecilia, che dimentica le amarezze e le violenze della vita chiudendosi in un cinema. Ho tenuto per me il coinvolgimento emotivo con questa donna che cerca nel film un mondo dove è bello vivere, popolato di uomini affascinanti e, più di tutto, buoni e gentili – i libri, i film, non svolgono forse per tutti noi la stessa funzione? Ho tenuto per me l’ammirazione per la mano delicata, ferma e compassionevole che ha disegnato la psicologia dei personaggi. Il cacciatore bianco, tanto eroe nella celluloide quanto inetto nella realtà, impacciato dalle contraddizioni della vita vera, confuso dalle sue illogicità. Il rude marito di Cecilia, manesco e volgare, capace di dimostrare l’amore come uomini di quella fatta sanno dimostrarlo, con le sberle, e qualche lampo di umanità incapace di redimerlo. Il perfido Gil, attore interessato solo alla propria carriera, che si incarica di rimettere le cose a posto e distruggere il sogno d’amore di Cecilia perché lo show possa go on, e l’ordine riprendere a regnare: oh, ma non è cattivo, sapete? Gli dispiace per Cecilia, almeno per cinque minuti: vedete la sua espressione triste in una delle ultime scene del film? E’ l’espressione di chi fa sporchi lavori, con la scusa che qualcuno deve pur farli: e quanti ce n’è, in giro…..
Per molto tempo ho tenuto per me l’amore per gli occhi sgranati di Cecilia, nello stesso tempo ingenui e carichi di esperienza. Cecilia, che vive il suo grande sogno e poi sceglie la realtà, forse sapendo già che la realtà l’avrebbe fregata; e forse sapendo anche che, se quel sogno si fosse avverato, avrebbe distrutto tutti i sogni di tutte le cecilie del mondo. E tuttavia non rinuncia a sognare.
Ho tenuto per me tutto questo e molto altro – il tempismo perfetto, l’ironia e l’autoironia, il metafilm che parla del film, ecc.ecc. - che scoprivo ogni volta che rivedevo, in DVD, in casa, sola – per evitare risatine e sguardi di compatimento – questo film.
Poi ho incontrato un uomo che ci vedeva le stesse cose che ci vedevo io, e molte altre cui non avevo mai pensato. Come potevo non innamorarmene?

Via col Vento

Via col vento di Victor Fleming (+ George Cukor, Sam Wood) USA, 1939 Interpreti: Vivien Leigh, Clarke Gable, Olivia de Havilland, Leslie Howard



Manuela 25 marzo 2007su Abbracci e Popcorn

Mettiamo le cose in chiaro: a me piacciono i film da donna. Se fanno piangere è meglio. Niente film armeni sottotitolati in turco, premi della critica ai festival underground, film erotici giapponesi, ecc. ecc. E incomincio dal re dei polpettoni, premettendo un appello in difesa della sua colonna sonora abusata da un giornalista depravato: Via col Vento.
Succede in questo film, che quello che pretende di raccontare è molto diverso da quello che racconta per davvero, come se i personaggi acquisissero una vita indipendente dalle intenzioni degli sceneggiatori.
Rossella O’ Hara dovrebbe essere leggera, egoista, immorale e cattiva, ma ne esce il ritratto di una donna indipendente, coraggiosa, capace di tirarsi su le maniche e affrontare gli eventi. Capace, anche, di svelare l’ipocrita grettezza di una società che sta per morire.
Al suo confronto gli altri personaggi sono figurine di carta.
La buonissima, fedelissima, delicatissima, femminilissima Melania è come le donne dovrebbero essere nell’immaginario di un certo tipo di uomo: decisamente stucchevole e parassita.
E Ashley, che dovrebbe essere romantico, ma fa la figura di un perfetto stupido, porta fra l’altro su di sé la colpa di infliggere allo spettatore un film di quattro ore, solo perché non dice subito a Rossella che non l’ama. Giustamente, Rossella, alla fine del film sbotta: “Ma perché non me l’hai detto prima?”. Ce lo chiediamo anche noi.
Resta Rett Butler, tanto puttaniere quanto perbenista, che pur amando Rossella la disprezza. Troppo vile per essere un vero cinico o un vero eroe, si barcamena tra le due cose. Quando alla fine se ne va, lasciando sola Rossella, speriamo tutti per lei che non si faccia mai più rivedere..
Il film è incline agli stereotipi; non infierisco su Mamie e i poveri neri in genere, che parlano coi verbi all’infinito come se fossero appena stati tirati giù dagli alberi.
Resta lei, la protagonista, più moderna e viva di quanto si pensi. Che esce dalla catastrofe pubblica e privata con lo sguardo rivolto in avanti. Che se ne frega delle definizioni affibbiatole dalla buona società degli Stati Confederati, o dagli sceneggiatori e dai registi stessi*.

*Registi, plurale, che per un film di tal stazza non ne è bastato uno. “Ufficialmente la regia è attribuita a Victor Fleming, ma durante la produzione si sono succeduti Gorge Cukor e Sam Wood” (Fonte: Wikipedia).

Volver

Volver di Pedro Almodovar. Spagna, 2006 Interpreti: Penelope Cruz, Carmen Maura



Enzo, 23 marzo 2007 su Abbracci e Popcorn

Voglio parlarvi di Almodovar. L’altra sera siamo andati in un cinema all’aperto convinti di goderci, una volta tanto, un buon film, non uno dei soliti filmacci americani (anche loro non sanno più fare i bei film di una volta… ih! ih!ih!). Facevano “Volver” . Non so se ha partecipato a qualche concorso, so però che Almodovar è un regista di successo e che i suoi film fanno sempre discutere. E invece nada! Niente, peggio di così non poteva andare. Tutta la storia si basa sul problema del rapporto tra madre e figlia con la pretesa di parlarne al femminile. Poteva anche essere un argomento capace di sviluppare un discorso intrigante, invece l’unica cosa chiara è che il regista ha un problema irrisolto con la madre e, detto tra noi, chi se ne frega? Per non parlare delle figure maschili, per altro presenti solo nei ricordi delle protagoniste, che, padri o mariti che siano, hanno provveduto a stupri, incesti con le proprie figlie. Almodovar prova ad imitare Fellini e la scena del funerale è una… caricatura… ma quale Fellini... si vede subito che il tentativo è abortito in una sequenza senza anima e quasi ridicola. Nel complesso una storia senza capo ne coda, dove i rapporti tra tutte queste donne non si capisce dove vogliono portare. Alla fine lo schermo si è fatto scuro e non è rimasto altro che dire…una boiata pazzesca!
Il bello è stato dopo, infatti il gestore aveva organizzato un intrattenimento dopo film con un terzetto (piano, contrabbasso, batteria) che ha suonato magnificamente musica jazz. Abbiamo fatto l’una di notte... dilettanti, ma molto bravi: questa è l’Italia che mi piace!