domenica 12 ottobre 2008

Asso nella manica

Asso nella manica di Billy Wilder. USA, 1951. Interpreti: Kirk Douglas, Jan Sterling, Robert Arthur



Enzo 28 agosto 2008 su Circolo Obama
Nel lontano giugno del 1981 ero in vacanza in Calabria ed ebbi modo di seguire alla radio la tragedia di Vermicino.

I più giovani forse non conoscono quell’evento che fu per giorni all’attenzione dell’intero paese. Si trattò della tragedia del piccolo Alfredino che cadde in un pozzo rimamendo incastrato alla profondità di trenta metri. Iniziò la corsa per salvare Alfredino. Trivelle, tentativi di raggiungere il povero bimbo, la TV che in diretta manda in onda le immagine delle squadre di soccorso, interviste a famigliari conoscenti, arriva anche il Presidente della Repubblica: tutto questo e altro ancora fino alla morte di Alfredino.

Anche senza tv capii subito che stava accadendo qualcosa di assolutamente nuovo. Passavano le ore e cresceva la consapevolezza che si stava montando un circo mediatico. Prima i numerosi collegamenti, poi la diretta. La tv in particolare usciva dalla fase pionieristica per farsi “media” capace di “rappresentare la realtà e di fare notizia” per il solo fatto di essere sul posto e di entrare nelle case dell’intero paese. Si può dire che fu inaugurata la TV del “dolore”. Mi fu naturale ripensare ad un vecchio film che avevo visto da ragazzo e che mi aveva colpito. Parlo dell’”Asso nella Manica” di Billy Wilder (1951). Il film era una rappresentazione –anticipata- di una patologia dell’informazione, che ora stavo toccando con mano vivendo in “diretta” la tragedia di Alfredino.




La storia del film è molto semplice e molto simile a quella di Vernicino: un giornalista privo di scrupoli perde il posto ed è costretto a trasferirsi in provincia. Durante il viaggio apprende che un uomo è rimasto intrappolato da una frana in una vecchia miniera. Il suo fiuto da giornalista gli dice di andare a vedere. Trova l’uomo in buone condizioni che può essere salvato facilmente, ma il giornalista organizza i soccorsi in modo di allungare i tempi per poter creare la notizia. Ecco che una semplice notizia di cronaca che si sarebbe esaurita in un piccolo trafiletto sui giornali locali diventa la “notizia” che il giornalista monta senza alcun scrupolo: l’evento mediatico si trasforma in un vero e proprio circo. Wilder è spietato nel descrivere l’ambiente giornalistico che recupera immediatamente il giornalista in disgrazia. Alla fine però l’uomo, causa il ritardo orchestrato dal giornalista, morirà e il circo sarà rapidamente smontato pronto per essere rimontato attorno ad un altro evento.
La storia di Alfredino non fu molto diversa, ma quello che interessa è che fu proprio allora che iniziò quel giornalismo cinico e privo di scrupoli, che non arretra di fronte al dolore, al rispetto della dignità delle persone. L’Italia dell’ottantuno era ancora dentro agli anni di piombo, l’ascesa di Craxi porta nel paese l’idea del superamento delle ideologie. Si apre la strada al ritorno al privato. L’effimero diventa un valore che investe anche la politica. E l’informazione sembra cogliere al volo la possibilità di occuparsi di una cronaca che non siano gli omicidi, le stragi, le deviazioni di pezzi di apparati dello stato. Dunque compare anche in Italia Charles "Chuck" Tatum (Kirk Douglas) e il circo è montato. Certo l’informazione americana è cosa ben diversa da quella italiana, ma anche negli USA dovrà passare oltre un decennio prima di arrivare al Watergate, cioè ad un giornalismo capace di “controllare”, di fare il proprio dovere. Tuttavia che il cinema USA, negli cinquanta pur in una situazione contradditoria, riesca a fare film come questo, ci dice che il clima generale era favorevole, appunto, alla crescita di un giornalismo che si interroga sulle questioni morali che riguardano chi è chiamato a questo delicato mestiere. L’indipendenza, la verità delle notizie, la certezza delle fonti, le verifiche necessarie prima della pubblicazione, la coerenza rispetto ai valori deontologici: sono questioni che pongono domande molto serie che, probabilmente, non hanno una risposta valida per sempre.

E nel bel paese? Il giornalismo (della carta stampata e della TV) degli ottanta è ingessata com’è ingessato il sistema politico. A parte alcuni casi meritori di giornalismo di inchiesta e denuncia, la stampa italiana non si accorge di nulla. Nulla di ciò che sta vivendo il paese. Troppo impegnata in equilibrismi per non scontentare i potenti a cui è legata a doppio filo. L’Italia degli anni ottanta è quella della spesa pubblica e dell’accumulo del più grande debito pubblico del mondo, di una corruzione diffusa che non ha paragoni e il giornalismo non si accorge di nulla, non vede il paese reale, perché è impegnato a guardare altrove, sempre più proiettato verso questo modello di informazione: quella appunto di Vernicino. Solo negli anni novanta il giornalismo fu costretto ad occuparsi di tangentopoli: non potendo farne a meno si buttarono come belve per sbranare tutto e tutti. Non interessava la “notizia”, i “fatti”, interessava di sbattere i mostri in prima pagina. Come non contava nulla la sorte del povero Alfredino. Contava, invece, scavare per dare notizie che tali non sono: allora ecco gli esperti che dicono solo ovvietà, i preti, perché un prete ci deve sempre essere, il dolore dei famigliari perché si vuole soddisfare il gusto dell’orrido, la retorica usata a piene mani. Insomma Vernicino fu l’inizio di quella TV (spazzatura) che dilagò successivamente nelle case degli italiani.

Charles "Chuck" Tatum (Kirk Douglas) diventa dunque italiano. Leo Minosa nella miniera del Nuovo Messico e il povero Alfredino dentro al pozzo di Vernicino sono le vittime inconsapevoli di una informazione che non guarda alla notizia, ma al modo di creare “interesse” attorno ad una notizia che non è tale.

Per concludere un grande Billy Wilder che si misura con temi “impegnati” che poi abbandonerà. Proprio un grande regista!

Divo (Il)

Il Divo di Paolo Sorrentino. Italia, 2008. Interpreti: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Giulio Bosetti



Enzo 12 agosto 2008 su Circolo Obama

Quando il film è uscito ho letto le recensioni dei critici: tutte favorevoli, anzi entusiaste. Non riuscivo però a decidermi di andare al cinema per vederlo. Sarà che non mi piacciono le biografie, sarà che l’idea di vedere un film su un personaggio politico vivente aggiungeva altri dubbi e quando Manuela mi propose di andare tergiversai. Poi qui nel circolo si parla di cinema e non posso riferirmi solo ai western, così ieri sera siamo andati.
Che dire? Forse è il caso di dire che non capisco, che non ho gli strumenti per leggere i film di questi giovani registi. Il film sviluppa i personaggi –al plurale perché non c’è solo Andreotti- in modo, per me, caricaturale -mentre i critici parlano di surrealismo (Natalia Aspesi) - e inoltre fa una lunga elencazione di personaggi pubblici che sono stati dentro la storia del paese e che hanno in comune l’aver incrociato Andreotti e il suo sistema di potere. Personaggi e fatti sembrano presi da un data base di un giornale che conserva le notizie pubblicate nel corso degli anni. Non è un operazione giornalistica, cioè ricerca della verità, non è l’esposizione di una tesi sulla prima repubblica e sul ruolo che il “divo” ha avuto per mezzo secolo: sono semplici citazioni come si fa in un reportage giornalistico. Ma il film? Qual è il film? Cosa vuole descrivere? Quale storia? Alla fine lo spettatore non aggiunge nulla a ciò che già sa di Andreotti, non aggiunge nulla nemmeno ai luoghi comuni che da sempre lo accompagnano. Per esempio il famoso e mitico archivio di cui si parla da decenni che, ammessa la sua esistenza, non ha affatto impedito il tracollo della DC né tanto meno la sua uscita dal quadro politico attivo. Il giudizio sulla DC e su Andreotti non è ancora stato consegnato alla storia, tuttavia alcune certezze si possono avere. Per esempio è assodato che la DC è stata (anche) un sistema di potere ramificato nel paese basato sul clientelismo, sul connubio politica/affari/malavita. Come è assodato che nello Stato ci sono stati servizi deviati e collusi con la malavita. Allora il film di tutto questo fa un’operazione macchiettistica, mentre le degenerazioni, i delitti, le stragi il terrorismo sono state una cosa seria. Anche le continue battute di Andreotti riducono il personaggio ad una macchietta.

“Il divo" alla fine pare già un film storico, che racconta di un modo di fare politica che sembra non più attuale, finito.” (Natalia Aspesi)

No, non è un film storico perché non dice nulla di più rispetto alla “cronaca” che i giornali ci hanno raccontato di Andreotti. Ma come dicevo all’inizio forse sono io che non ho gli strumenti per leggere il film. Il cinema è la settima arte quindi dentro ci devono essere emozioni, fantasia, narrazione, capacità di catturare lo spettatore portandolo dentro alla storia. Ecco tutto questo per me ieri sera non c’era. C’era quel lungo data base che è servito al soggettista per imbastire una descrizione di un personaggio a tutti stranoto.

Quindi il mio è giudizio negativo, non solo verso questo film ma verso il cinema italiano che non riesce più a “raccontare” in modo originale e che dimentica, attraverso il racconto, di parlare di noi, del nostro tempo, delle contraddizioni in cui siamo immarsi o dei grandi temi della vita. Non riesce nemmeno a rapire lo spettatore portandolo dentro la storia.

Alla fine i critici hanno sentenziato l’assoluta validità dell’opera di Sorrentino, ma io sono lo spettatore, quindi ho ragione io. :-))

Rosa purpurea del Cairo (2) (La)



Manuela 15 agosto 2008 su Circolo Obama

Vorrei parlarvi del mio film preferito, La rosa purpurea del Cairo. Ma prima vorrei raccontarvi la trama, che credo non tutti conoscano a fondo.

La protagonista è una donna, Base (Mia Farrow), che da molti anni trascina la sua vita in una crisi che sembra non finire mai. Compie diligentemente i suoi doveri – vota, serve salsicce alle feste dell’unità – ma ormai senza passione; la realtà che le sta intorno è fatta di partiti rissosi, di personalismi, di cooptazione, di incapacità diffuse.
Base si rifugia sempre più spesso in un mondo di sogno, dove fantastica di una politica nuova, un partito giovane, un leader affascinante e credibile: una politica di cui potersi innamorare.
E un giorno, l’impossibile, succede: questa politica, prende corpo e vita, e le parla, con le parole di Uòlter (Jeff Daniels). Base si ubriaca delle parole di Uòlter, che sono quelle che da molto tempo anelava sentire; ed è così persa nel suo sogno d’amore, che non fa molto caso ad alcune goffaggini di lui – che tenta, per esempio, scambiando fantasia e realtà, di mettere in moto un’auto senza chiave o di vincere le elezioni candidando qua e là qualche giovane carina – attribuendole alla sua inesperienza, al suo tenero candore, e all’invidia cattiva di chi lo circonda.
E’ lei, Base, che si preoccupa di aiutarlo a cavarsela nel mondo ostile della politica; lo nutre, lo coccola, sta ore ed ore ad ascoltare le sue parole, adorandolo.
Succede, però, che il Partito (sempre Jeff Daniels) esce dal loft, ritrova Uòlter, e, mentre questo rientra nel mondo fantastico che lo ha creato, lo sostituisce nell’amore della bella Base; il Partito le parla con calmo realismo, la mette in guardia da fughe in avanti, da sogni impossibili. Base è confusa: le sembra che il mondo di sogno vagheggiato con Uòlter stia diventando sempre più nebuloso e indistinto; il Partito è solido, il Partito è il presente, il Partito le promette di assomigliare a Uòlter, di diventare quello in cui lei ha sempre creduto. E ancora una volta, Base gli crede, e cede; ma mentre si prepara a partire con lui per un nuovo mondo, il Partito se ne torna nel loft, appagato di aver ucciso il sogno, prima che diventasse troppo reale.

Il film finisce così, con il Partito che se ne torna nei suoi palazzi, soddisfatto (maanche convenientemente pensoso) di avere carpito la fiducia di Base, abbandonandola poi al suo destino; e con Base, che ricomincia a fantasticare… una politica nuova, un partito giovane, un leader affascinante e credibile… e a dibattersi “per identificare la linea di confine tra la fantasia e la realtà, e scoprire che a volte la realtà è solo un'emozione in meno”.

Mister Smith va a Washington

Mister Smith va a Washington di frank Capra. USA, 1939. Interpreti: James Stewart, Jean Arthur, Claude Rains




Manuela 3 agosto 2008
su Circolo Obama

Cercando emozioni per le sere d’estate, mi sono imbattuta in Frank Capra. Forse li avevo anche visti i suoi film, da ragazzina, in tv, quando mia madre sbuffava: sempre roba vecchia!, ma poi rimaneva perplessa di fronte alla roba nuova, che allora si chiamava Antonioni, Fellini.
Fatto sta che ho ri-scoperto un baule di cose preziose, forse invecchiate nella forma, ma non tanto nella sostanza. E, poiché è opportuno che mi ritragga un po’dalla politica attiva, ne parlerò qui, ancora incantata da Mr Smith va a Washingotn, 1939 (un James Stewart ad occhioni sgranati, perfettamente giovane e ingenuo).

La trama in due parole: muore un deputato di uno Stato degli USA e il partito (a quei tempi non c'erano le primarie e i partiti decidevano a tavolino chi doveva essere eletto... che strano sistema, eh?) è chiamato a sostituirlo; ne cerca uno docile agli intrallazzi che i capi del partito intessono con i potentati economici del luogo, e credono di averlo trovato nell’ingenuo Mr Smith. Ma Smith è sì inesperto, pieno di buoni sentimenti e di patriottismo, ma ha un sogno. E per quel sogno si batte, parlando per ore e ore in Parlamento (oggi diremmo “facendo ostruzionismo”, ma lo fa da solo), finché non riesce a spuntarla, a realizzare il suo sogno e, nel contempo, a svelare la corruzione nel partito.

Due considerazioni, e un post scriptum.
Prima. La politica, se non è anche sogno, si trasforma in affare di soldi e di potere. Se non è prefigurazione del futuro, progettazione del mondo che vorremmo, perde di vista gli interessi generali per occuparsi del particolare, perde di senso e di capacità di parlare agli uomini. Il realismo politico, necessario per muoversi nel presente, non può essere separato dall’utopia, necessaria ad immaginare il futuro.

Seconda. Per questo sogno, per questo disegno futuro, bisogna battersi. A viso aperto, senza vigliaccherie, senza tattiche strumentali. Non è mica facile fare battaglie, è defatigante e, soprattutto, è rischioso – si possono anche perdere. Infatti Mr. Smith, che crede nella sua utopia, non è affatto certo di vincere, al contrario; ma, comunque vadano le cose, ci deve provare, perché la sua etica non gli permette scorciatoie. Così tiene in scacco il Parlamento americano, che prima lo deride – composto com’è di politici navigati e scaltri – ma poi si accorge di avere, per troppo tempo, dimenticato il senso della sua esistenza.

Poi mi è successa una cosa strana. La battaglia di Mr Smith è contrastata da un personaggio che vede messi in discussione i suoi interessi. Questo tale è proprietario di tutti i mezzi di comunicazione - all’epoca radio e giornali - dello Stato, e scatena, attraverso questi, una campagna denigratoria contro Smith.
Probabilmente l’America, dal ‘39 in qua ha corretto il tiro; ma per me, la sensazione di contemporaneità è stata un colpo allo stomaco!

domenica 5 ottobre 2008

Da qui all'eternità

Da qui all'eternità di Fred Zinnemann. USA 1953. Interpreti: Frank Sinatra, Ernest Borgnine, Deborah Kerr, Montgomery Clift, Burt Lancaster.



Manuela 8 novembre 2007 su Abbracci e popcorn

Ieri sera ho visto – forse rivisto, ma chissà dove e quando è stata la prima volta.. – “Da qui all’eternità”. Fra pochi giorni non ricorderò i nomi dei protagonisti né del regista, e a lungo andare, anche la trama – ma esiste poi una trama? - sfumerà nella mia mente (per questo non so parlare dottamente di film, quello che ricordo non è mai quello che agli altri importa sapere).
Ne ricorderò, sicuramente, l’intensità, che mi ha tenuto inchiodata al video.
La guerra, non ancora scoppiata, mai nominata, che esplode solo alla fine come una catarsi che arriva a spazzare via tutto, è lo sfondo buio sopra il quale si muovono i personaggi.
E i protagonisti, ciascuno ben inteso con la sua personalità, si muovono su questo sfondo, aggrappandosi alle loro poche certezze, come fossero maniglie da stringere per tenersi in piedi in mezzo alla burrasca della vita, mentre procedono verso il proprio destino. Destino che ognuno porta scritto in dentro di sé, e così non si può eludere, solo affrontare con dignità, poiché non si può essere diversi da quelli che siamo. A volte qualcosa, per esempio l’amore, può arrivare a metterlo in discussione, a farci balenare un’altra vita, altri noi stessi, un destino diverso. Ma è solo un momento, perché quello che siamo non ci perdona, non lascia scampo. E tutto ritorna nei binari che ci siamo scelti, e ineluttabilmente, la fine arriva proprio là, dove l’abbiamo aspettata.
La stessa intensità, lo stesso senso tragico della vita, che trovai in un altro film di quegli anni “Niagara”, dove la tragicità della condizione umana è messa in risalto dallo sfondo di un ridente, banale, luogo di villeggiatura. Là un’umanità che sta per entrare nel buco nero della guerra, qui un’umanità che, dopo esserne uscita, prova a riprendere a vivere. Ma l’uomo – l’umanità – non è cambiato tuttavia, e porta sempre il sé il virus della propria autodistruzione.
Sarà per questo che, nonostante sia passato molto tempo , e cambiate molte cose, dal modo di raccontare alla tecnica cinematografica, sarà per questo, dicevo, per quella domanda sottotraccia – chi siamo, dove andiamo… - che non ha mai avuto la risposta giusta, che questi film davvero invecchiati non sono mai?

P.S. Pare, dalla ricerca delle immagini, che la sola sequenza degna di essere rappresentata sia il famoso bacio fra Deborah Kerr e Burt Lancaster. In realtà avrei di molto preferito un Frank Sinatra ammazzato di botte che affronta in piedi il suo destino. Ma ci si accontenta di quel che c'è.

Fiorile

Fiorile di Paolo e Vittorio Taviani. Italia, 1993. Interpreti: Claudio Bigagli, Lino Capolicchio, Chiara Caselli, Renato Carpentieri, Galatea Ranzi, Michael Vartan, Athina Cenci.



Manuela 28 ottobre 2007 su Abbracci e Popcorn

La prima volta che ho visto Fiorile mi era piaciuto moltissimo. Sarà perché lo vidi a tarda notte, e a quei tempi la solitudine era merce rara e preziosa, così come il silenzio. Starsene da sola davanti alla tv a guardare un film non commerciale era un lusso che poche volte mi potevo permettere.
L’ho rivisto poche sere fa, e, in generale, mi è piaciuto ancora. E’ una felice idea fare degli ideali di libertà e uguaglianza i protagonisti che, subito uccisi, riaffiorano via via nella storia familiare e sociale attraverso un secolo e mezzo. E’ felice l’idea di consegnare la sopravvivenza di questi ideali alle donne, che li coltivano, anche se più per propensione sentimentale che per intelletto. Ma gli uomini, anche loro, la calpestano, più per avidità e interesse che per scelta razionale. Tutto questo rivisitato attraverso il racconto di un padre a due bambini curiosi della storia di una famiglia a loro del tutto ancora sconosciuta.
Bella l’ambientazione, bella, anche troppo, la cura del particolare che sfiora l’estetismo; e già questo incomincia a disturbarmi, come mi disturbano l’eccesso di richiami e di simmetrie, che rendono la storia un po’ troppo intellettualistica. Ma più di tutti mi disturbano i tempi, dilatati fino allo spasimo, il lungo indugiare della camera su un’inquadratura, i silenzi, oh i silenzi… che sembra quasi che gli attori abbiano dimenticato la parte, e invece magari c’è un significato recondito che noi, poveri normali spettatori, non riusciamo a individuare.
E del resto sono gli stilemi tipici di un certo “film d’autore” italiano: geniale sotto certi aspetti, per altri talmente estetizzante da rendere il racconto di difficile sopportazione. E sì che la storia è intrigante, e si vuole sapere come continua e come finisce. Se solo finisse un po’ più alla svelta, ecco.
E poi, quando la fine arriva, come spesso succede è deludente; la mia impressione (mi capita spesso con autori italiani) è che i registi non trovassero il modo di finire il film, e l’abbiano strascicata in lungo in modo artificioso, caricandola sempre più di simboli e significati, ma in realtà scendendo a capofitto in una quasi ghost-story. E comunque si inserisce nel filone dei finali aperti, tanti cari a certi registi; non è chiaro se l’idea di libertà e di uguaglianza possa avere ancora un posto fra le colline toscane, o se se ne andrà definitivamente oltralpe: ciascuno decida per sé. Ma il nome “Fiorile” scritto da mano ignota sul finestrino dell’auto - che dovrebbe, credo, essere simbolo di futura speranza - mi sembra un escamotage degno di più dozzinali produzioni. O magari non ho capito proprio niente.

Shrek

Shrek di Vicky Jenson e Andrew Adamson. USA, 2001



Manuela 2 ottobre 2007 su Abbracci e Popcorn

Personalmente vi consiglio di prendervi una serata di libertà, dar retta ai vostri figli, e andarvi a godere Shrek. E’ nelle sale, in questi giorni, Shrek 3; parlandone casualmente, le mie figlie mi hanno diffidato dall’andarlo a vedere senza prima aver visto Sreck 1 e Sreck 2. Ho puntualmente obbedito, e così ho incominciato da Shrek 1…
La prima reazione è stata di stupore, per una cosa totalmente nuova, e, nello stesso tempo, molto antica. Innanzi tutto la tecnica. I cartoni animati adesso sono tridimensionali; ma, a differenza del vecchio, goffo Toys, hanno ritrovato tutta la ricchezza di espressioni, movimenti, sfumature del cartone animato tradizionale. Per cui l’orco è un vero orco, non un disegno di orco, che si aggira per una vera palude, e il mulo è un vero mulo: con espressioni e tic antropomorfi, come nel miglior Walt Disney. E la principessa è più o meno una vera attrice.
La storia è vecchissima, e raccontata con modalità del tutto moderne; e, se fa ridere i bambini, perché ha lo stile e le battute di un cartone animato, solo un adulto può cogliere tutto lo straordinario intreccio di citazioni di cui il film è intessuto. A partire dalla trama, che è la parodia de “La bella e la bestia”, con il finale esattamente rovesciato. Ma quale bambino può riconoscere il balletto dei boscaioli di “7 spose per 7 fratelli” o “Mary Poppins” nel duetto – con finale al vetriolo - fra la protagonista e l’uccellino? Le incursioni nel presente sono innumerevoli, dai fumetti manga alla tv – la corte del principe applaude al comando del cartello “Applausi” – al linguaggio, che ricalca benissimo quello, non sempre integerrimo, dei nostri ragazzi. Il tutto perfettamente armonizzato in una storia dove i buoni sentimenti trionfano, sì, come potrebbe essere altrimenti, ma non le sdolcinature, e dove i personaggi, anche quelli delle favole, presentano chiaroscuri e contraddizioni, hanno qualche pregio e molti difetti, proprio come succede nella vita reale.
Non è strano che sia piaciuto tanto, più che ai bambini, ai ragazzi; ricorda infatti molto i loro autori preferiti, come Christine Nostlinger o Roald Dahl. Libri in cui le mamme non sono necessariamente angeliche, al contrario, e gli insegnanti possono essere fannulloni, proprio come succede nella vita vera: che è quella nella quale occorre imparare a vivere, e imparare a distinguere il bene dal male, che è la cosa più difficile. Questo film può aiutare i bambini, perché parla la loro lingua e, sotto le spoglie della favola, racconta cose vere e non necessariamente edificanti: basti per tutte gli esilaranti spintoni fra Biancaneve e Cenerentola per accaparrarsi il bouquet della sposa! E può gratificare anche noi, facendoci sentire molto vissuti e molto colti, con il gioco delle citazioni; e, forse, a ben pensarci, ci prende un po’ in giro.

L’eroe di Sparta di Rudolph Matè. USA. 1962. Interpreti: David Farrar, Diane Baker, Barry Coe.

300 di Zack Snayder. USA, 2006. Interpreti: Gerard Butler, Lena Headey, Domic West, David Wenhan




Enzo 1 ottobre 2007 su Abbracci e Popcorn

In una calda sera di agosto siamo usciti per un giro in bicicletta tra le stradine del centro e siamo capitati davanti ad un ex convento ora adibito a mostre e ad iniziative di culturali. Quella sera in una saletta stavano per proiettare L’eroe di Sparta. Un film del ’62, di produzione americana del filone mitologico. Proprio in quei giorni, parlando di cinema con le nostre bimbe, ci avevano elencato alcuni film meritevoli fra cui “I trecento”. Non c’è voluto molto per decidere che era il caso di entrare con l’obiettivo poi di andare poi a vedere anche I Trecento. Ecco alcune sere abbiamo chiuso il cerchio, guardando l’ultimo nato della saga delle Termopoli.

Il mio non è, quindi, un consueto commento ad un film, ma un raffronto e una riflessione sulla evoluzione del cinema. Gli spunti di riflessione sono tanti e voglio cominciare dalla tecnica. Nel senso che nel primo film la spettacolarità era affidata alle immagini in cinemascope, mentre nel secondo entra in campo con forza la tecnica digitale. Se nel primo caso la tecnica consentiva di mettere in risalto le scene di massa e di movimento all’interno di una storia, nel secondo le parti si invertono: è la storia ad essere al servizio della tecnica. Anzi forse è meglio dire che la tecnica di elaborazioni delle immagini fa la storia. Perché senza la possibilità di costruire figure umane, di smontarle per mostrare corpi martoriati, amputati, decapitati, non ci sarebbe la storia. Come non ci sarebbe la storia senza la possibilità di “creare” comparse, animali, scenari tutti virtuali. E’ di pochi giorni fa la notizia che in Inghilterra è finito il lavoro delle comparse, nel senso, appunto, che la tecnica digitale permette di fare film con comparse virtuali. La tecnologia dunque trasforma non solo il modo di fare film, ma crea la storia.
D’altro canto questo film è una trasposizione di un fumetto che a fine anni ’90 ha avuto molto successo. Il sacrificio dei Trecento è solo uno spunto che perde la sua originalità perché con il fumetto prima e con il “videogames” dopo non si vuole raccontare una storia, si vuole dare emozioni tramite immagini che restituiscono allo spettatore l’impossibile in tutte le salse: dall’acrobatico dei duelli al truculento e alla violenza rappresentati in mille modi. Immagini forti, appunto, che sono tanto più belle tanto più mostrano la capacità della tecnica di fare ciò che nella realtà non è possibile fare. Ecco allora le scene di battaglie dove gli spartani sono capaci di gesti iperbolici. Il gioco è assicurato. Alle immagini poi si un unisce una colonna sonora (?) che getta suoni altrettanto iperbolici sullo spettatore. Anche in questo mix suoni e immagini c’è tutta l’attualità dei videogames
Per quanto riguarda la trama nell’edizione del ’62 il fatto delle Termopoli è raccontato per esaltare i “valori” della patria e dell’onore, dell’eroismo, della fedeltà al ruolo che è imposto agli uomini: essere guerrieri che vivono sapendo che li aspetta il supremo sacrificio purchè compiuto in battaglia con al braccio il proprio scudo. Se c’è un filo che lega i due film è il ruolo (o forse è meglio dire l’immagine) delle donne. In entrambe i casi esse sono solo fattrici di guerrieri che devono difendere Sparta perchè a essa appartengono e pur sapendo che i propri figli, mariti sono destinati alla morte sono appagate perché solo le donne spartane possono partorire dei guerrieri e degli eroi.
L’eroe di Sparta tutto sommato rientra in quel filone americano, un po’ fascista, che sarebbe stato cancellato da lì a poco, con la guerra in Vietnam e i fermenti giovanili che in quegli anni iniziavano a scompigliare gli States.
Viceversa in Trecento l’onore, l’eroismo che pure sono citati, non hanno nessun significato. Tanto è iperbolica ogni scena del film che fa perdere di vista quei valori di destra che l’Eroe di Sparta apertamente esaltava. Come detto, anche in Trecento si usano, negli scarsi dialoghi, gli stessi riferimenti che però vengono velocemente dimenticati e il videogames prende il sopravento. Se ne rendono conto anche gli autori, infatti, costruiscono una sceneggiatura dove le parole sono scarse ed irrilevanti e tanto più sono enfatiche tanto più si comprende che ciò che conta per gli autori è stupire lo spettatore che a sua volta si lascia trasportare nel gioco. Anche il modo in cui hanno caratterizzato i protagonisti ci dice che non c’era nessun interesse per loro, anzi. Gli autori hanno giocato sul paradossale. Serse trasformato in una macchietta: un gigante gay alto tre metri. Leonida in un muscoloso guerriero che pensa solo a farsi ammazzare e pensa agli ateniesi come “filosofi effeminati”.

Tut
to questo però scivola via velocemente, l’importante è far vedere i corpi scultorei dei trecento che uccidono una marea montante di nemici. I trecento sono un corpo unico e assieme lottano, colpiscono e alla fine muoiono. Se nel film del 62 si capisce, almeno, che quel sacrificio ha avuto una motivazione nella salvezza della Grecia, nel film di oggi non c’è neppure questo, tutto sparisce con la scena finale del corpo di Leonida ormai morto.
Non mi sento di esprimere un giudizio di valore. E’ vero che non mi è piaciuto, però credo che sia troppo lontano da me, sia dal punto di vista generazionale che da quello dei gusti che in me sono consolidati. Tuttavia credo che il film ci interroghi sulla evoluzione del cinema.
E' per questo che voglio concludere con una riflessione su questo aspetto che è di stretta attualità, non è un caso, infatti, che si parli della crisi del cinema.
Guardando il film e valutando la novità che la tecnica digitale introduce, penso 300 sia la metafora di ciò che oggi è il cinema. Superata l’età adulta del cinema esso sta ritornando all’inizio della propria storia, quando attraverso macchine a manovella si stupiva il pubblico. Emblematica la scena del treno che sembrava investire gli spettatori: emozioni forti per dei spettatori che si avvicinavano a questo prodigio della tecnica. Da allora ci vollero molti anni perché il cinema diventasse adulto, capace cioè non solo di meravigliare, ma di essere la “settima arte”. A me sembra che con l’utilizzo del live action e della computer graphic sia in atto una rivoluzione che, necessariamente, ora, come allora, si serve della tecnica per “meravigliare” il pubblico, ma che domani porterà ad utilizzare i nuovi linguaggi che la tecnica introduce, le nuove opportunità di un mondo che è sempre più vasto, pieno di relazioni e di interazioni. Gli autori di videogames sono l’avanguardia, arriveranno anche registi che sapranno darci emozioni che non siano solo quella di meravigliarci per scene che nella realtà non possono esistere.
Buon cinema a tutti.
lodes

Seconda notte di nozze (La)

La seconda notte di nozze, di Pupi Avati. Italia, 2005. Interpreti: Antonio Albanese, Neri Marcorè, Katia Ricciarelli



Enzo 17 settembre 2007 su Abbracci e Popcorn

Non conoscevo i film di Pupi Avati e l’altra sera mi sono disteso sul divano ben disposto alla conoscenza di questo autore: sullo schermo parte “La seconda notte di nozze”.
Appare subito chiaro che il regista ci sa fare. L’ambientazione è curata e per me che sono vecchio e che ho vissuto da bambino l’immediato dopoguerra significa riconoscere oggetti, ambienti, modi di essere, situazioni. Valga per tutti la coabitazione. Ho avuto la fortuna di dormire in una camera ovale di un palazzo nobile del ‘700, ma di là da una tramezza di compensato abitava un'altra famiglia. Ma torniamo al film. Mano a mano che il regista sviluppa la trama (trama?) mi domandavo dove voleva andare a parare. Nel senso che va bene essere solleticato sui ricordi, per certi versi è anche piacevole, tuttavia al film manca una tesi, manca una vera storia. Non basta richiamare un mondo che non c’è più, questo può essere un occasione se la narrazione è stimolo per riflessioni su questioni più alte. Sappiamo bene cosa ha significato la tragedia della guerra, come sappiamo cosa ha significato per le persone che hanno vissuto quella stagione, ma nella storia di Avati c’è solo una raffigurazione di personaggi che non mi (ci?) dicono nulla. Descrive personaggi che sono anche scarsamente rappresentativi di quell’Italia. Certo il figlio gaglioffo, la madre dai facili costumi, il matto che si fa carico di ciò che gli “altri” non vogliono affrontare possono far pensare a metafore dell’italietta. In realtà quell’italietta è finita con il fascismo. I fermenti, le aspettative di quegli anni erano ben altri. Dunque la storia si avvita su sé stessa, senza raccontare altro che un improbabile viaggio verso il nulla. C’è appunto solo la descrizione puntuale dell’ambiente e di personaggi che sono completamente avulsi dalla realtà. Ma per rimanere alla storia anche il matrimonio se da un lato si può comprendere come soluzione ai problemi di sopravvivenza di Liliana (Katia Ricciarelli) e Nino (Neri Marcorè) non è sufficiente a dare corpo e soluzione alla storia. Infatti il film nel tentativo (tardo) di recuperare ricorda la bimba morta su la mina. Forse si chiude un epoca?
Troppo poco.
Ovviamente ho fatto una ricerca e i critici si sono espressi tutti a favore del film…..ma io sono uno spettatore…..e ho ragione io! :))

Kid Auto Races at Venice

Kid Auto Races at Venice di Henry Lehrman. USA, 1914. Interpreti: Charlie Chaplin



Manuela 13 settembre 2007 su Abbracci e Popcorn

Questa volta voglio sorprendervi. Sulle orme di Giuliano, mi sono fatta io stessa sorprendere da un film, che poi non è un film, del 1914: un cortometraggio, ovviamente muto, di Charlot. E’ la seconda volta che Chaplin appare con i tratti caratteristici di Charlot. Uno Charlot prima maniera, lontano ancora dalle sfumature psicologiche e dalle sensibilità dei suoi film più noti, Luci della città o Il monello. E’ uno Charlot ancora figlio della sua epoca, delle comiche arruffate, sbruffone e un po’ volgari, con la sola ambizione di strappare al pubblico una grassa risata. Non sarebbe altro che un reperto archeologico, un pezzetto di storia del cinema, interessante solo per gli addetti ai lavori, se non fosse, dal punto di vista di uno spettatore moderno, sorprendentemente profetico (mi accorgo che sto usando troppo il termine “sorpresa” in tutte le possibili declinazioni: ma questa è evidentemente la cifra con la quale ho assistito alla proiezione).
La storia è semplice. In occasione di una gara di auto a pedali per ragazzi (una gara che stava effettivamente avvenendo al momento della ripresa: e, permettetemi un inciso, uno sport ben stravagante, anche considerando l’atmosfera da belle époque), due operatori cinematografici sono al lavoro per riprenderla. Per tutto il tempo Charlot cerca invece di far riprendere se stesso. Passa e ripassa davanti all’obiettivo proprio mentre stanno arrivando le macchine, sorride, fa smorfie, saluta. Regolarmente gli operatori lo fanno sloggiare in malo modo, regolarmente riappare dalle più svariate angolazioni, si insinua fra le madri che incitano i pargoletti, sbuca dietro la bandiera dello starter, rischia - pur di apparire - di essere investito.
Non credo che né il regista, Henry Lehrman, né lo stesso Chaplin, abbiano inteso fare altro che una gag divertente, dando spazio e ali al personaggio che diventerà poi famoso. Oggi però, si ha l’impressione di assistere ad una profezia realizzata; Charlot pare racchiudere in sé tutti i presenzialismi che il diffondersi del cinema prima e della televisione (soprattutto della televisione!) poi, ha scatenato: da quello ingenuo degli spettatori che fanno ciao con la manina alla telecamera, a quello becero dei talk show spazzatura. Quell’omino dispettoso e irriducibile, è sconcertante, perché sembra portare già in sé il Grande Fratello, e i politici di “Porta a Porta”, che se non ci vanno muoiono di consunzione, e gli assassini che rilasciano interviste. E Paolini, col quale condivide il lato più giocoso di innocuo rompiscatole.
Fatto sta che mi sono incantata davanti a quelle immagini un poco sfocate e a quell’omino che imitava – e come li imitava bene! – tutti quelli che, se non si vedono riflessi in uno schermo non sono sicuri di esistere. E non si può far a meno di pensare che, in fondo, forse Chaplin aveva già intuito da allora la trasformazione che la presenza di una macchina da ripresa può provocare anche nelle persone più innocue.

Pirati dei Caraibi

Pirati dei Caraibi - La maledizione del forziere fantasma di Gore Verbinski. USA, 2006. Interpreti: Johnny Depp, Orlando Bloom, Keira Knightley



Manuela 17 agosto su Abbracci e Popcorn

Ieri sera sono andata al cinema. “Pirati”, che mi era stato caldamente consigliato dalle mie figlie come cosina leggera, proprio niente di impegnativo, divertente anche, adattissimo a Ferragosto e, in più, con il grande pregio di avere come protagonista Johnny Depp, che si lascia volentieri guardare, ed è anche bravo.
Si, si, tutto vero, solo che non è un film, è un videogame. Questa frase l’avevo sentita dire da Sissi, parlando di “300”, e allora non avevo capito bene quello che intendesse. Adesso lo so.

Come un in un videogame, il senso è:
assolvere un compito, facendo un dato percorso, abbattendo un certo numero di nemici, aiutato da un certo numero di amici, utilizzando un certo numero di oggetti magici. Il compito è salvare il vecchio padre. Il premio è la conquista della bella.
Durante il percorso si possono raccogliere bonus – ad esempio mappe, pozioni, ecc. – che servono in caso di difficoltà. Ad esempio, se, ad un certo punto, il protagonista viene abbattuto, gli “amici”, utilizzando adeguatamente tali bonus possono andare a prelevarlo nell’al di là; al peggio, game over, si ricomincia.
A differenza di un film – anche quelli da estate, senza troppe pretese - la trama è inesistente, e i personaggi non hanno alcuno spessore psicologico, ma non perché il regista non ci sappia fare, al contrario, devono essere proprio così: non sono “buoni” o “cattivi”, poiché l’esser tali è solo una convenzione, basta scambiarsi i ruoli con l’amico/avversario, come fanno i ragazzi davanti alla consolle, e il gioco può continuare all’infinito. L’andare e venire da un luogo all’altro ha il senso di un succedersi di videate – tecnicamente bellissime, ma altrettanto piatte - in cui quello che conta è dimostrare la propria abilità nello sconfiggere i nemici. Come Lara Croft (chiedo venia, è l’unica che mi ricordo) agli ordini dei tasti di un computer, i personaggi fanno cose mirabolanti e ripetitive (poiché le possibilità di una tastiera non sono infinite): saltano, sparano, schivano, e quando qualcuno viene colpito ci si aspetta di vedere sullo schermo la striscia rossa lampeggiante che indica che le vite a disposizione sono diminuite. I feriti non sono veri feriti (nemmeno nel senso che la “verità” può avere nel cinema), i morti non sono morti.
Confesso che me ne sono dormita un bel po’. Del resto, che pathos e che suspence può avere un videogame? Stare davanti ad un video a vedere qualcun altro che gioca è sommamente noioso: non ho niente contro i videogame, anzi, ma alla tastiera voglio starci io, altrimenti che gusto c’è?
Lodes, uscendo dall’arena gradevolmente estiva, commenta scuotendo la testa, che il cinema ha finito la sua funzione, e che le storie si racconteranno con altri mezzi e con altre tecniche. Forse ha ragione. D’ora in avanti, però, solo cose d’antan…

Gattopardo (Il)

Il Gattopardo di Luchino Visconti. Italia, 1963. Interpreti: Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Alain Delon, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Romolo Valli



Enzo 31 luglio 2007 su Abbracci e Popcorn

Di solito cerco di non tenere conto del libro da cui è tratto un film. Nel senso che la lettura di un libro è un fatto personale che scatena emozioni, fantasie, sensibilità, che fanno sì che il lettore costruisca visivamente ciò che sta leggendo. Quindi guardare una trasposizione cinematografica di un libro partendo dalla immaginazione costruita nella lettura, può solo fare dei danni. Danni al nostro immaginario, ma anche a ciò che il regista ha realizzato. Anche il regista nel costruire il film partendo da un libro opera una propria elaborazione, utilizza come tutti noi gli strumenti dell’immaginazione e della sensibilità, magari per uscire completamente dalla traccia iniziale. Tuttavia la prima volta che vidi il Gattopardo dovetti rivedere questo approccio. Don Fabrizio (Burt Lancaster) era proprio Lui, proprio come lo avevo immaginato e così anche gli altri personaggi e l’ambientazione. Questa assonanza mi parve strabiliante: sembrava che Visconti avesse letto con i miei occhi il Gattopardo. Ancora poche settimane fa mi sono riguardato il bel film di Visconti e ho goduto nel rivedere quei personaggi immaginati tanti anni prima nella lettura del libro. Non sono un cinefilo, quindi non so dire se esistono altri casi analoghi, ma a me questo, proprio perché contraddice quella regola generale, è sempre sembrato un grande pregio. Il film però è altro. E’ sicuramente un esercizio stilistico di grande fattura. Capace per questo di portarci dentro quel mondo che la storia ha cancellato. Attraverso la figura di Don Fabrizio ci porta dentro la crisi di un uomo di mezza età che soffre perché il suo mondo si sta dissolvendo e per la contemporanea consapevolezza del volgere della vita verso l’esito finale. Tutto questo c’è nella tristezza di Don Fabrizio, che pur ancora uomo vigoroso sente avanzare il decadimento in un intreccio tra pubblico e privato che aggrava ancor di più il senso della perdita di un tempo mitico in cui, appunto, furono “Leoni e Gattopardi”.
Non basta a Don Fabrizio l’amore per il giovane Tancredi che, proprio perché giovane bello e di successo, non è in grado (non vuole) di rigenerare il casato. Egli è quello che pronuncia la frase del tutto cambi perché nulla cambi. Tancredi in fondo non è altro che la riedizione di quegli antenati che non sapevano leggere e far di conto. Don Fabrizio nel colloquio con il funzionario piemontese (il cavaliere Chevalley di Monterzuolo) è fatalista e premonitore: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.”
Ma perché nulla cambi c’è bisogno di nuovi compromessi/assetti sociali e serve a questo il matrimonio di Tancredi con Angelica Sedara (Claudia Cardinale). Angelica è figlia di Don Calogero (un grandissimo Paolo Stoppa) cioè il rappresentante di quella nuova classe (borghese?) che sostituirà i Leoni e i Gattopardi. Quindi un grande Visconti che ci conduce per mano dentro a questa dissolvenza tragica. Azzardo e dico che Visconti (anche lui veniva da una antica e nobile stirpe lombarda) sente su di sé questo decadimento: in fondo anche se uomo di cultura di sinistra subisce il fascino di una nostalgia per il tempo mitico dei Leoni, dei Gattopardi, dei “Biscioni” che dominavano il bel paese. Una fascinazione che lo travolge e non lascia spazio a nessun riscatto o segnale di speranza. Rimane fedele al libro: non poteva fare diversamente perché la storia ha purtroppo dato ragione a Don Fabrizio. Quindi, al protagonista, nell’ultima inquadratura, non rimane che andarsene, verso una strada buia come se ne sono andati tutti gli altri e al loro posto rimarranno gli sciacalli, le pecore e……i biscioni.

Sfida infernale

Sfida infernale di John Ford. USA, 1946. Interpreti: Con Henry Fonda, Victore Mature, Linda Darnell, Walter Brennan.



Enzo 10 luglio 2007 su Abbracci e Popcorn

Ford con questo film (1946) conclude un percorso iniziato con Ombre rosse (1939). Un percorso per portare il Western alla fase della propria maturità. Il western fino ad allora era stato la rappresentazione spettacolare dello scontro tra buoni e cattivi, di inseguimenti, di indiani ululanti: insomma il western era congeniale alle immagini in movimento che tanto affascinavano i nostri nonni. I film si basavano, appunto, su elementi molto semplici, il bene il male, il buono e il cattivo: Tom Mix fu l’eroe che interpretò meglio queste storie fatte di scazzottate, di cavalcate, di inseguimenti. John Ford reinvesta il western, lo fa diventare adulto, introduce personaggi che hanno una psicologia, che sono portatori di tormenti, di ricerche esistenziali ed umane. L’azione non viene meno: in questo film non mancano certo gli elementi avventurosi classici del western, ma appunto Ford mette in gioco gli individui. Individui alla ricerca della loro esistenza dentro una ricerca più grande che riguarda l’America. Wyatt Earp, Doc Holiday non sono altro che due facce della stessa medaglia. C’è nella figura di Doc una continuità con la prostituta Dallas di Ombre rosse. Entrambi sono segnati da un destino che non lascia spazi. Anche se la loro sorte sarà diversa, entrambi rappresentano la tragicità della propria esistenza: una segnata dal “mestiere” e, quindi, dalla emarginazione a cui nemmeno Ringo riuscirà a porre rimedio per cui saranno costretti ad andarsene, l’altra segnata sì dalla malattia, ma prima ancora dallo scontro con un mondo (l’est) che rifiuta chi va fuori degli schemi. Entrambe troveranno nel selvaggio west una loro legittimazione ed è attraverso questi personaggi che Ford ci racconta di una frontiera che ha un rapporto conflittuale con la borghese america dell’est. Da un lato sono quelli che scoprono nuovi territori, che cercano nuovi spazi e nuove opportunità, che si sentono avanguardie di una nazione che crede nel proprio destino, che portano l’ordine, la legge, dall’altro sono quelli che fuggono dalla società complessa dell’est. Cercano gli ultimi scampoli di una stagione che la modernizzazione travolgerà entro breve. Non stupisce dunque che Doc Holiday declami i versi dell’Amleto. C’è in questo atto tutto l’amore/ odio verso il “proprio mondo” da cui sa di non poter fuggire: sarà sempre –anche ad un tavolo da gioco o brutalizzando Chihuahua –un uomo di cultura, un uomo che sa vedere anche la piccolezza del proprio mondo. Ma sia Doc che Earp non sfuggono al loro destino: Earp fa ciò che deve in nome della legge, Doc fa ciò che deve in nome della sua coerenza verso ciò che è stato: ribelle ma dalla parte della giustizia, non poteva essere diversamente. Dunque un film che scava dentro i personaggi, che apre il western alla “cultura”. Non solo un film d’avventura, ma il western come terreno dove sondare le inquietudini, dove ragionare del destino del paese, dove interrogarsi sulla evoluzione di una società che sta entrando nella storia da protagonista. Tutto questo fa grande John Ford. Poi ci sono i “quadri” all’interno dei quali Ford racchiude delle vere e proprie chicche: Solimano ha già ricordato la famosa frase del barista, ma come dimenticare i fratelli di Earp? Come dimenticare la scena del ballo? E come dimenticare il clima rarefatto della domenica in cui Earp tutto tirato a lucido si dondola sulla sedia? Insomma assolutamente geniale. Da ultimo un cenno a Walter Brennan che qui interpreta il ruolo del cattivo Clanton. La storia professionale di Brennan va in senso esattamente opposto, ma qui Ford gli da possibilità di dimostrare le sue grandi capacità di attore e lui sarà un grande cattivo, assolutamente nel ruolo.

Pretty Woman

Pretty woman di Garry Marshall. USA, 1990. Interpreti: Richard Gere, Julia Roberts



Manuela 10 luglio 2007 su Abbracci e Popcorn

Non mi sembra che Pretty Woman sia paragonabile alla Signora delle Camelie.
Questa è un’opera drammatica e dirompente, gettata nel mezzo alla buona società borghese dell’800, a scandalizzarla. Quella società che è in grado di accettare tutto – e infatti di relazioni con prostitute è affollatissima – ma non che si mettano in discussione le apparenze. Infatti il vecchio Germont, non chiede a Violetta di lasciare il figlio perché il loro rapporto è immorale, ma perché metterebbe in discussione il buon nome, e le nozze di convenienza, della figlia “pura siccome un angelo”. E Violetta vuole a tal punto entrare a far parte con ogni diritto di questa società borghese, che ne accetta completamente la logica: lascia Alfredo, perché continuare il loro rapporto sarebbe una trasgressione, e i bravi borghesi – come lei vorrebbe tanto diventare al fianco di Alfredo - non tollerano trasgressioni. L’ordine deve essere ristabilito, al prezzo del massimo sacrificio individuale. La Traviata è un’opera universale, perché tocca il grande tema, mai esaurito, del rapporto fra la libertà dell’individuo e il necessario ordine sociale.
Pretty Woman è invece la riproposizione dell’archetipo di Cenerentola. La favola è altrettanto importante della tragedia per il genere umano, ma è altra cosa. C’è un protagonista predestinato: Vivian è una prostituta, allo stesso modo in cui Cenerentola è una serva. Il piedino di questa vale lo stile innato dell’altra. C’è l’intervento magico (la fatina, il direttore Thompson) che svelano la vera natura del protagonista; magica è la bacchetta della fatina, magico è il direttore che, in un paio di lezioni, insegna a Vivian parlare, a comportarsi in pubblico, a vestirsi, a scegliere i vini e non so che altro (My fair Lady ridotto in pillole!). C’è anche l’antagonista, il volgare Philip, che non riesce a vedere la speciale qualità di Vivian, e che viene ovviamente sconfitto. C’è il principe azzurro, che ci mette sempre un po’ a capire (e Richard Gere, con la sua faccia un po’ bovina mi sembra che sia perfettamente tagliato per la parte). Per cui il film non poteva finire in altro modo che col matrimonio. Ogni altra fine avrebbe reso ridicola la storia.
La favola deve finire col matrimonio, e per questo è credibile: e non con un matrimonio qualsiasi (uomini che sposano ex prostitute sono talmente tanti da non essere per niente interessanti). Cenerentola deve sposare il principe.
E’ quello che accade dopo, che le favole non dicono mai.

Grande guerra (La)

La grande guerra di Mario Monicelli. Italia, 1959. Interpreti: Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Silvana Mangano, Romolo Valli.



Enzo 3 luglio 2007

La grande guerra, lo abbiamo detto, ha incrociato poche volte il cinema. La coscienza sporca forse lo ha impedito. La pazzia e l’assurdità di quel massacro furono tali da impedire, forse, tentativi di rivisitazione, di critica. Abbiamo già recensito Uomini contro, mi sembra giusto ora farlo con la “Grande guerra” di Monicelli. Due approcci molto diversi: là Rosi usa la Grande guerra per parlare della follia della guerra, una follia senza tempo, perché il tempo della guerra non è mai scaduto nella storia umana, qui Monicelli ci parla più dal di dentro di “questa guerra di morti fame fatta da morti di fame”. E lo fa da par suo e con grande equilibrio riesce ad evitare una carrellata di macchiette. Non solo, riesce ad usare due grandi attori che in quegli anni erano i campioni della commedia all’italiana, senza che la drammaticità della storia della guerra venisse sommersa da una comicità inutile. Certo usa l’agrodolce e attraverso i personaggi e situazioni che strappano anche il sorriso riesce a rappresentare benissimo l’Italia contadina, analfabeta, povera, stracciona, dell’inizio del novecento. Un Italia costretta ad una guerra incomprensibile, ma certamente assassina. Sono ignote e lontane le retoriche patriottiche, le dispute politiche interventiste o antiterventiste, solo Giovanni Busacca ha annusato in una Milano industriale il vento della rivolta del proletariato, ma non ne ha ancora coscienza. Cerca di sottrarsi alla guerra, ma il destino è segnato. E’ segnato per lui e per la sua generazione. In quei soldati c’è appunto tutta la disperazione e la rassegnazione di un popolo abituato alla fame, alla miseria. La guerra non è altro che uno dei tanti accidenti che segnano le misere vite di questi contadini. Monicelli descrive con un tratto lieve i diversi caratteri personali, ma anche regionali, tutti uniti però appunto nella incomprensione di ciò che sta loro accadendo. Disegna episodi e personaggi come se fossero quadri. Solo ad esempio voglio ricordare il soldato che rincorre sempre il tenente per farsi leggere le lettere della fidanzata. L’Italia acculturata, la classe dirigente che presenta uno dei volti buoni a fronte di quello terribile dell’avanti Savoia! In buona sostanza la narrazione ci fa attraversare i momenti vivi e veri di una umanità che stenta a credere al proprio tragico destino. Si ricorda sempre di questo film lo stereotipo rappresentato da Busacca/Gassman e da Jacovacci/Sordi, cioè di quella italietta piccina, furba, opportunista, irresponsabile, si ricorda questo perché è una costante nella filmografia di Monicelli, ma io credo che qui i personaggi di Gassman e Sordi, vadano in senso esattamente opposto. Infatti, l’eroismo finale di Busacca e Jacovacci non è il riscatto sul filo di lana dei vizi italici, non lo è perché non è un gesto fatto per esaltare il patriottismo, il legame al valore del dovere, ma piuttosto la descrizione di una dignità individuale, che questi soldati/popolo si portano dietro. La dignità di uomini che non vedono e non riconoscono il nemico perché loro non hanno nemici, perchè sono costretti ad uccidere ed a essere uccisi, ma loro sanno di essere quelli che vivono la vita difficile, simile a quella di chi hanno di fronte. Il loro nemico è la fame, il lavoro duro e gramo. Voglio riportare qui un brano del diario che mio nonno scrisse prima di morire proprio nel 1916 sul Monte Sabotino:“….Quando fummo nella nostra trincea fu fatto un sorteggio per andare ad accompagnare i 43 prigionieri in un vicino paese ove era il commando d’Armata. In mezzo a questi sorteggiati ci fui anch’io e dopo avuto le istruzioni del nostro capitano ci si mise in marcia colle baionette sui fucili facendo scorta ai prigionieri. Dopo un’ora di marcia si fece breve riposo per mangiare un po’ di pane che era due giorni che non si cibava. Ad un momento io lascio il mio posto per allontanarmi per un bisogno, depongo a terra fucile e tascapane. Ritornato dopo poco vado per mangiare un po’ anch’io, ma con mia sorpresa non trovo la pagnotta che tenevo da due giorni nel tascapane. Sorpreso di questa sparizione mi rassegno e domando un po’ di pane ai miei compagni. Me la diedero e insieme a loro mangiai una scatola di carne. Ad un tratto volsi l’occhio al plotone prigionieri, e con mia grande sorpresa vidi uno dei prigionieri che mangiava a doppia bocca una delle nostre pagnotte. Mi immaginai allora che il mio pane l’aveva preso lui giacchè era vicino al posto ove era la mia armatura. Allora ci domandai dove l’aveva presa, e mi segnò il mio posto, scusandosi, in buon italiano dell’atto. Ma lui mi disse che fu spinto dalla gran fame che teneva da tre giorni. Poi mi disse che era di Ala e di fatti parlava benissimo come io l’italiano. Disse anche era padre di cinque figli che aveva lasciati a casa quando fu costretto dalle leggi tedesche di andare sotto le armi a combattere contro di noi. Mi fece tale compassione che dopo ci diedi una mezza scatola di carne che se la mangiò con il resto della pagnotta. Poco dopo ci si mise in marcia di nuovo e…”.
Dunque Monicelli ci restituisce un’immagine, un ricordo di un’ Italia che non entra nei libri di storia, se non come numeri utili alla contabilità tragica dei morti. Non i vizi di un’italietta stereotipata, ci parla invece di uomini la cui vita è spesa solo per una grama sopravvivenza. E’ proprio per questo che mi piace questo film. Busacca Giovanni e Oreste Jacovacci non sono altro che noi stessi dentro alba della storia di questo paese. Passeranno ancora molti anni prima dell’emancipazione dai bisogni dei Busacca e Jacovacci, ma loro non saranno passati invano.

Dollaro d'onore (Un)

Un dollaro d'onore di Howard Hawks. USA, 1959. Interpreti: John Wayne, Dean Martin, Angie Dickinson, Walter Brennan.



Enzo 30 giugno 2007

Essendo stato chiamato immeritatamente in causa su questo film mi permetto di intervenire aprendo un nuovo post.
Un dollaro d’onore l’ho visto al cinema quando uscì e rivisto enne volte in tv e mai una volta che il piacere è venuto meno. Un film perfetto. Perfetto nella storia, nei personaggi, nella recitazione (tutti gli attori concorrono in egual misura in una competizione espressiva di alta qualità), nell’ambientazione. Non è un western dei grandi spazi, di cavalcate, è un film che intreccia sapientemente la psicologia dei singoli personaggi in una trama anomala descrittiva della saga western. Anomala per l’ironia che lo attraversa, ma in cui contorni classici del western non necessitano di alcuna narrazione. Tutto è predefinito e lo spettatore lo sa: quello che conta è la storia è l’intreccio delle psicologie. Gli stereotipi western sono racchiusi in un vaso di fiori dai mille colori: c’è la cittadina ai confini con Messico in cui la legge del più forte resiste all’avanzata della “giustizia/stato” che però è ancora lontana diversi giorni di cavallo, c’è lo sceriffo che presidia una legalità scevra da fronzoli che non ammette cedimenti nemmeno quando il male sembra più forte e vincente. Tutto questo non ha necessità di descrizioni: lo spettatore lo sa già e rivolge l’attenzione allo svolgersi degli eventi. Eventi racchiusi in un microcosmo che ha bisogno solo di alcune scenografie confezionate in studio: la strada principale, il saloon, l’albergo, l’ OK Corrall, tutto il pathos del film nasce cresce e trova la conclusione qui dentro. Il film appartiene al periodo maturo del western, qui non c’è la narrazione del mito della frontiera, non c’è la narrazione della conquista, della nascita di una nazione, c’è appunto l’ironica narrazione degli stereotipi del western e per certi versi la sua messa in discussione. John Wayne che apparentemente reinterpreta l’ennesimo personaggio del giustiziere che tutto sistema in realtà gioca a smontare se stesso. E per la prima volta lo vediamo innamorato di una donna reale in carne ed ossa, innamorato come un qualsiasi uomo e che combatte una battaglia già persa in partenza con una donna. E’ qui che sbaglia Manuela, in realtà questo è il sovvertimento dello stereotipo. Certo l’omosessualità latente attraversa tutta la cinematografia western e qui Howard Hawks non si sottrae affatto, anzi. Incastra i personaggi in modo tale da creare appunto un grumo di “amicizie particolari” da cui le donne sono escluse: Chance si fa picchiare da Borachon senza reagire ed è disposto a cedere al cattivo pur di salvarlo. Salvarlo dalle donne e dal disonore. Il vecchio Stumpy gode nel sopportare ogni (presunta più che reale) angheria da parte degli amici pur di poterli (da vecchia checca) coccolare. Poi c’è Colorado che non resiste al fascino di questi uomini e smette di stare a guardare rinunciando alla vita normale di un giovane che dovrebbe coltivare ben altre amicizie. Non si può non vedere questa omosessualità esibita, ma il risultato è eccezionale e proprio nella narrazione di questo intreccio raggiunge le punte più alte: come il bacio di Chance sulla testa di Stumpy, o il litigio tra lo Stesso Stumpy e Borachon, ma il culmine è raggiunto nella scena in cui i quattro, baraccati dentro la prigione, si mettono a cantare Rio Bravo. Assolutamente perfetta. Sarebbero tanti altri gli stereotipi di cui parlare ma è bene che mi fermi qui.
Dunque, per finire, stereotipi rivisti reinterpretati per parlarci di un genere western che ormai ha poco da aggiungere e da dire. Il mito si fa intreccio ironico, si fa narrazione di se stesso, quasi ad annunciare una fine molto vicina. Infatti l’inquadratura finale si chiude sulle calze di Feathers che gettate dalla finestra perché Chance ha capitolato e lo sceriffo sarà come tutti gli altri: un uomo inscimunito dall’amore. Dude 'Borachón' e Stumpy che raccolgono la calza se ne vanno con una risata. Appunto all’America non rimane che ridere di se stessa: l’età della conquista è finita, c’è altro a cui pensare.

A qualcuno piace caldo

A qualcuno piace caldo di Billy Wilder. USA, 1959. Interpreti: Jack Lemmon, Tony Curtis, Marilyn Monroe.



Manuela 23 giugno 2007

Quello che mi ha sempre affascinato, in questo film, che credo sia uno dei migliori nel suo genere, è il ritmo. Tutta sembra muoversi a ritmo di quel jazz, caldo appunto, che è insieme sfondo e protagonista di tutta la vicenda. Fin dall’inizio, fin da quei gangster che scortano casse da morto piene di whisky, e dalla sparatoria con la polizia, in cui anche i mitra sparano a ritmo di jazz. E naturalmente il film non ha – non potrebbe avere – una sola stonatura: dai gangster, bruttissimi e cattivissimi, ai suonatori squattrinatissimi, al seduttore sedotto, a lei, la magnifica Marilyn, che è troppo… troppo tutto. Troppo bella, troppo sexy, troppo ingenua; il contrasto fra procacità delle forme e ingenuità cosciente di se stessa, è il sale del fascino di Marilyn, e in questo film, dove i contorni sono caricati fino al limite - mai superato però - della parodia, Wyler e Marilyn lo sfruttano senza pudore. Fino al parossismo della scena – a mio parere una delle più divertenti che abbia mai visto al cinema e, credetemi, è molto difficile farmi ridere – della seduzione fra Marilyn e Tony Curtis, bel tortellone già di suo, qui ancora più in parte, nel contrappunto con un esilarantissimo Jack Lemmon. La genialità della scena sta nel capovolgimento parodistico di tutte le scene di seduzione del cinema, dove lui, presunto frigido, si lascia sciogliere da una lei che, con quel po’ po’ di forme, ci si mette proprio di impegno, come se fosse necessario… Noi sappiamo che lui finge e che forse – ma non è certo – anche lei finge di non sapere che lui finge, e questo rende ancora più esilarante la faticosissima indifferenza di lui e l’indiscussa buona volontà di lei.
A ritmo di musica dialogano, facendo da contrappunto l’una all’altra, le storie di seduzione dei due protagonisti: da una parte Tony Curtis che si finge milionario e Marilyn che, mentre si dedica alla disperata ricerca di un milionario, è attratta inevitabilmente dai suonatori di sax (l’allusione sessuale è sottile ma inconfondibile, direi) e dall’altra uno straordinario Jack Lemmon nei panni di Josephine ed il milionario autentico, nel quale scatena una passione che supera tutti gli ostacoli.
Il film ruota attorno al travestimento dei due protagonisti, che, per sfuggire ai gangster si mimetizzano in un mondo di donne vere; e se per il bel tortellone è facile passare dal ruolo femminile a quello maschile e viceversa, senza perdersi, grazie all’ancoraggio della bellissima cantante, per Jack Lemmon le crisi di identità si susseguono, con effetti comici indiscutibili. Wyler affronta il tema del travestimento e dell’identità sessuale con grazia scanzonata, priva di pregiudizi e, soprattutto, priva di qualsiasi volgarità. Fino alla apodittica frase finale, un piccolo capolavoro: quando Jack Lemmon si trova alle strette ed è costretto a confessare al suo milionario innamorato di essere un uomo, questi risponde salomonicamente che…“nessuno è perfetto!”. A pensarci bene, è proprio così….

Diavolo veste Prada (il)

Il diavolo veste Prada di David Frankel. USA, 2006. Interpreti: Meryl Streep, Anne Hathaway, Stanley Tucci.



Manuela 30 maggio 2007

Dopo una notevole serie di film di guerra e western, ho chiesto una tregua e mi sono fatta suggerire da mia figlia un film rilassante e, soprattutto, da donna. Così, finalmente, ho potuto rilassarmi davanti a “Il diavolo veste Prada”. Questo film dimostra, innanzi tutto, che gli americani non hanno perso il tocco con le commedie; infatti è una godibilissima “commedia americana”, facile da seguire, divertente, perfettamente ambientata, e recitata magistralmente. E non è stupida, perché questo tipo di commedie non lo è mai; al contrario, buttano lì, senza parere, e con ironica leggerezza, spunti per riflessioni che potrebbero protrarsi molto a lungo, situazioni e problemi che attengono alle numerose contraddizioni del mondo di oggi.
Avevo letto che era un film sulla moda, ma non è proprio così. E’ bensì ambientato nel mondo della moda, ma a me sembra che il tema di fondo sia quello del lavoro: di che posto debba avere nella nostra vita, fino a che punto sia giusto sacrificarvi la vita privata, fino a che punto si possa giungere senza vendersi l’anima al diavolo (appunto). Se vi sembrano temi di poco conto! Senza parlare del tema del merito, che forse è quello centrale. Perché questo diavolo (una Meryl Streep straordinaria) fa sputar l’anima alle sue assistenti, le mette in situazioni intollerabili, pretende una dedizione assoluta; fino ad indurre la giovane Andy (Anne Hathaway, di fresca e intelligente bellezza) a ribellarsi a questa vita e ai compromessi con la propria etica che inevitabilmente comporta. Ma in fondo Andy , che recupererà la sua vita privata e i suoi ideali professionali, ha in sé la grinta e la volizione che le permetteranno di sfondare, e sa bene che il diavolo non è poi così cattivo, e un pochino le assomiglia. E c’è, naturalmente, l’antico sempre attuale tema, riassunto in una sola illuminante frase del film: “Se Miranda fosse un uomo tutti direste solo che sa far bene il suo lavoro”: essere una donna in carriera non è poi tanto facile, nemmeno in America.
Devo confessare che questo mondo aggressivo, competitivo e stressante, ma in cui ci si fa strada col merito e non con le raccomandazioni, mi solletica: ma deve essere solo l’effetto di una troppo lunga permanenza nella pubblica amministrazione italiana in cui merito, obiettivi e risultati sono termini del tutto sconosciuti.
E la moda? (I dotti amici maschi possono anche smettere di leggere adesso). E’ alta moda americana, e si vede. Il solo momento in cui si vedono bei vestiti – santo cielo, veramente belli!!! – è la sequenza della sfilata di Valentino. In compenso, Valentino, in persona, recita malissimo anche interpretando se stesso.

Sentieri selvaggi

Sentieri selvaggi di John Ford. USA, 1956. Interpreti: John Wayne, Jeffrey Hunter, Natalie Wood, Vera Miles



Enzo 23 maggio 2007 su Abbracci e Popcorn

Ho amato questo film fin dalla prima volta che lo vidi. Non un semplice western, con gli indiani, con i cow boy che si contendono il territorio e che vedrà il popolo rosso soccombere. E’ un capolavoro che va oltre il genere western. Ford qui dà veramente il meglio di se stesso. E, utilizzando tutti gli ingredienti classici del western, ci racconta della “search”. Una ricerca che è vecchia quanto il mondo e che nel film è affidata a Ethan Edwars (John Wayne). Ancora una volta un uomo solitario che torna dopo aver combattuto nella guerra di secessione e dopo un lungo ed ignoto peregrinare. Ma qui non siamo di fronte al giustiziere solitario che errante raddrizza i torti e compie giustizia. Ethan è un uomo della sua terra, ma che guarda sempre verso l’orizzonte. Sente il peso di appartenere a quella terra che non gli lascia spazio, se non quello di combattere un nemico crudele che rapisce le donne. L’odio monta dentro di lui. Odio per quell’indiano (Scout) che lo ha costretto ad abbandonare la sua strada verso nuovi orizzonti. Allora la “search” diventa un intrico dentro il quale Ethan rischia di perdersi fino ad arrivare a voler uccidere la nipote (ormai donna) rapita da Scout. Ma Ford con un colpo di genio risolve la questione e in una inquadratura mitica sveglia i veri sentimenti di Ethan che alzata la ragazza al cielo quasi a simboleggiare il prossimo sacrificio la accoglie tra le sue braccia e le dice “andiamo a casa”. Sono state tante le accuse a Ford di razzismo, in realtà non c’è accusa più sbagliata, Ford ci descrive il tormento di Ethan e di un intero popolo che in mezzo a mille contraddizioni ha saputo esprimere anche grandi valori civili e sociali. Sarebbero tante le scene di cui si potrebbe parlare a lungo. Non mi sottraggo nemmeno io a richiamare l’inquadratura iniziale e quella finale. Semplicemente geniale nella sua poesia. Ancora oggi a distanza di tanti anni nel rivederle sento un brivido di emozione. In entrambe c’è tutto il mito del west, ci sono i grandi spazi, ci sono orizzonti lontani, c’è la storia che si apre si chiude si ripete in un susseguirsi di generazioni. Come dimenticare poi la scena della lettura della lettera che Martin invia alla fidanzata a cui non ha mai detto nulla del suo amore. Un disegno perfetto che dice tutto di quel mondo legato alla terra, che ne narra le piccole abitudini, le consuetudini: semplicemente magistrale. Il western dunque ancora una volta è il paradigma di una “search” dentro l’uomo, dentro un mondo che resiste alle mutazioni che provengano dall’est. Una “search” del proprio senso e del proprio destino. Non è più sufficiente scoprire nuove terre, dissodarle, strapparle agli indiani, Ethan cercherà ancora e se ne andrà verso la luce della prateria e la porta della casa e dell’oggi si chiude dietro di lui.
P.S. Diverse immagini si possono trovare qui:
http://www.dvdbeaver.com/film/DVDReviews8/the-searchers.htm

Uomini contro

Uomini contro di Francesco Rosi. Italia, 1970. Interpreti: Gian Maria Volontè, Mark Frecchette, Alain Cuny



Enzo 22 maggio 2007 su Abbracci e Popcorn

Uomini contro è un film che parla della follia della guerra. Anche se si svolge durante il primo conflitto mondiale il tema è appunto la follia della guerra: sempre ed ovunque. Nulla ha senso nella rappresentazione, nemmeno la rivolta contro i massacri inutili, contro gli ordini assurdi. Quello che vince è la follia del destino. Un destino fatto dagli uomini. E qui sta proprio la drammacità della rappresentazione di Rosi. Dentro a questa follia nessuno sembra avere la possibilità di sottrarsi all’inevitabile. Non ce l’hanno gli intellettuali nei panni di ufficiali, non ce l’hanno i soldati, non ce l’ha nemmeno il generale chiuso dentro all’involucro del potere. Anche quando un barlume di umanità attraversa i suoi occhi davanti alla foto dei suoi cari rapidamente lo scaccia e torna ad essere il potere che deve ordinare la fucilazione del tenente Sassu. Il potere non tollera, infatti, la presenza della ragione, fosse anche per evitare morti inutili, il potere deve esercitarsi per il solo fatto di esistere. La follia dunque, ma cosa si può contro una follia assoluta che tutto travolge? Forse un altro gesto folle, come quello del Tenente Ottolenghi che incita a dire “basta a questa guerra di morti di fame fatta contro altri morti di fame”. In quel grido però c’è la riproposizione della impotenza contro la follia. La presa di coscienza della follia della guerra è un percorso lungo, attraverso la storia e ancora oggi non ancora concluso. Comunque grande quella scena del sacrificio di Ottolenghi. Lui sa bene che il suo folle gesto non porterà a nulla, eppure il peso della follia è troppo, anche per lui che sogna il sole dell’avvenire. Ma anche il tenente Sassu che all’inizio era interventista è travolto dalla pazzia. La presa di coscienza è più lenta, ma il destino è segnato anche per lui. Rosi non concede nulla. Niente segni di speranza, niente eroismi che in un qualche modo possono indicarci che il futuro sarà diverso. In questo il film risente del contesto in cui è stato realizzato. Il mondo diviso in due, l’olocausto nucleare era un ipotesi non così remota, la guerra del Vietnam e tutte le altre guerre locali parlavano di un mondo dove la pazzia era viva e forte. Il film purtroppo è ancora attuale. La pazzia si è ripresentata in altri modi, ma ugualmente terribili. Cos’è se non pazzia il terrorismo? Come non esistevano ragioni per quella inutile carneficina, non esistono oggi ragioni per il terrorismo.
Dunque un film di impegno che sarebbe bene fare circolare ancora.

Provaci ancora, Sam

Provaci ancora, Sam di Herbert Ross. USA, 1972. Interpreti: Woody Allen, Diane Keaton, Tony Roberts



Manuela 1 maggio 2007 su Abbracci e Popcorn

Tanto si è parlato di Casablanca, di cui ho visto solo alcune scene, sempre quelle, e in cui non ho mai capito la vera ragione per cui la Bergman non possa mollare il marito e stare con Bogart, che non posso fare a meno di parlare di Woody Allen, in quanto massimo esperto di Casablanca e, in particolare, del suo protagonista. E’ Woody-Sam a rappresentare il meglio di Bogart, allorché ne sa tratteggiare il mito che questi ha rappresentato per generazioni di uomini, che avrebbero voluto possederne il carisma e la sua abilità a trattare con le donne: lui sì, che sapeva prenderle e lasciarle, aveva le parole giuste e i gesti perfetti. Sam, il nevrotico che non riesce a combinarne una con le donne, l’imbranato senza speranza, cerca aiuto nel mito del cinema – riecheggiando qui “La rosa purpurea del Cairo”, con cui questo film condivide l’ironica leggerezza e la impietosa cattiveria nel tratteggiare i personaggi. Sam scoprirà poi che si piace rivelandosi per quel che si è, se si ha la fortuna di incontrare la persona con cui condividere parole, pensieri e nevrosi. Sam scopre che può suscitare amore e quindi impara ad amare; e a trovare le parole giuste, anche per lasciare la donna che ama. Il finale, geniale, è un vero addio, e solo dopo – quando Bogart approva – ci accorgiamo che è un remake dell’addio di Casablanca, quasi con le stesse parole; ma che qui acquistano un altro spessore, uno spessore di vita vissuta, non di esotica avventura. A questo punto Sam piace anche a noi per quel che è, e di Bogart non c’è più nessun bisogno. E infatti sparisce, soppiantato da un uomo più vero, certo più pasticcione ma sicuramente più intelligente: dote che, anche in un uomo, non guasta.
A parte la tenera simpatia dell’imbranato Sam, Allen tratteggia caratteri con la sua solita sferzante ironia. Pensate al marito di lei, un uomo in carriera che – in un’epoca in cui non esistevano i cellulari – telefona continuamente in ufficio per far sapere al socio dove chiamarlo in caso di necessità….
Una nota. Il film è sicuramente di Woody Allen, ma non è lui a firmarne la regia. Suo è il lavoro teatrale da cui è tratto, sue sono le battute, ma il regista è Herbert Ross, che credette da subito nel genio di Woody Allen e accettò di dirigere questo film.

venerdì 3 ottobre 2008

Città delle donne (La)

La città delle donne di Federico Fellini. Italia, 1980. Interpreti: Marcello Mastroianni, Anna Prucnal, Bernice Stegers



Manuela 16 aprile 2007 su Abbracci e Popcorn

Non parlatemi di rating perché tanto lo so già che questo film è piaciuto pochissimo. Potrei azzardare due o tre ipotesi per spiegarlo, e nessuna di queste comporta che il film sia brutto. Al contrario. Mi limito perciò a prendere atto che i miei gusti sono un po’ particolari.
Ho rivisto La città delle donne dopo 26 anni dalla prima volta, e, se possibile, mi è piaciuto anche di più. Perché, lasciateci alle spalle le emergenze cronachistiche, e le inevitabili punte polemiche da cui è stato accompagnato allora, resta adesso una storia universale. Uno scavo nelle profondità dell’uomo e della donna, e nella loro difficile – a tratti impossibile – comunicazione. Resta l’uomo messo a nudo nelle sue fragilità, incoerenze, pregiudizi, con partecipazione, tenerezza e ironia. E’ un film duro nei contenuti – perché a nessuno piace vedersi messo in piazza così, nei propri pensieri ed emozioni più intime e nascoste – e leggero nelle forme, evocatrici di tutti i temi più squisitamente felliniani: la strada, il circo, il musical, il cinema... Fellini scende dentro se stesso con una sincerità spiazzante, e descrive, con la stessa sincerità, le donne. Le donne viste da un uomo, naturalmente, che non sono sempre simpatiche: sono di volta in volta aggressive, castranti, rompicoglioni, culi e tette, mamme angelicate, mogli bercianti. Tuttavia sono le donne che, dopo aver scavato in tutti i peccati di Marcello, lo assolvono, ormai adulte e non più identificabili con gli stereotipi cui lui resta attaccato. Mirabile la scalata di Marcello alla ricerca della donna ideale, che risulta essere un pallone, che una donna vera, con una freccia ben mirata, fa miseramente sgonfiare. Ma l’essere umano è quel che è, e il finale si riavvita sulla scena iniziale, ad ammonirci che tutti, ci piaccia o no, siamo preda di quella spinta primordiale che attira i sessi uno verso l’altro.
In tutti i film di Fellini mi basta vedere i primi fotogrammi per esserne irrimediabilmente catturata, per voler sapere ad ogni costo cosa succede dopo; in questo film, in particolare, ogni scena genera la curiosità di vedere la prossima, proprio come Marcello, inseguendo la sua bella sconosciuta, si addentra di volta in volta in scenari imprevisti – eppure familiari. Mastroianni è bravissimo nell’ interpretare con straordinaria misura l’omonimo protagonista, Marcello detto Snaporaz: ma supera se stesso nell’espressione della scena finale, che senza parole, lo dichiara pronto a ricominciare daccapo, la stessa storia, e una nuova storia.