domenica 5 ottobre 2008

Grande guerra (La)

La grande guerra di Mario Monicelli. Italia, 1959. Interpreti: Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Silvana Mangano, Romolo Valli.



Enzo 3 luglio 2007

La grande guerra, lo abbiamo detto, ha incrociato poche volte il cinema. La coscienza sporca forse lo ha impedito. La pazzia e l’assurdità di quel massacro furono tali da impedire, forse, tentativi di rivisitazione, di critica. Abbiamo già recensito Uomini contro, mi sembra giusto ora farlo con la “Grande guerra” di Monicelli. Due approcci molto diversi: là Rosi usa la Grande guerra per parlare della follia della guerra, una follia senza tempo, perché il tempo della guerra non è mai scaduto nella storia umana, qui Monicelli ci parla più dal di dentro di “questa guerra di morti fame fatta da morti di fame”. E lo fa da par suo e con grande equilibrio riesce ad evitare una carrellata di macchiette. Non solo, riesce ad usare due grandi attori che in quegli anni erano i campioni della commedia all’italiana, senza che la drammaticità della storia della guerra venisse sommersa da una comicità inutile. Certo usa l’agrodolce e attraverso i personaggi e situazioni che strappano anche il sorriso riesce a rappresentare benissimo l’Italia contadina, analfabeta, povera, stracciona, dell’inizio del novecento. Un Italia costretta ad una guerra incomprensibile, ma certamente assassina. Sono ignote e lontane le retoriche patriottiche, le dispute politiche interventiste o antiterventiste, solo Giovanni Busacca ha annusato in una Milano industriale il vento della rivolta del proletariato, ma non ne ha ancora coscienza. Cerca di sottrarsi alla guerra, ma il destino è segnato. E’ segnato per lui e per la sua generazione. In quei soldati c’è appunto tutta la disperazione e la rassegnazione di un popolo abituato alla fame, alla miseria. La guerra non è altro che uno dei tanti accidenti che segnano le misere vite di questi contadini. Monicelli descrive con un tratto lieve i diversi caratteri personali, ma anche regionali, tutti uniti però appunto nella incomprensione di ciò che sta loro accadendo. Disegna episodi e personaggi come se fossero quadri. Solo ad esempio voglio ricordare il soldato che rincorre sempre il tenente per farsi leggere le lettere della fidanzata. L’Italia acculturata, la classe dirigente che presenta uno dei volti buoni a fronte di quello terribile dell’avanti Savoia! In buona sostanza la narrazione ci fa attraversare i momenti vivi e veri di una umanità che stenta a credere al proprio tragico destino. Si ricorda sempre di questo film lo stereotipo rappresentato da Busacca/Gassman e da Jacovacci/Sordi, cioè di quella italietta piccina, furba, opportunista, irresponsabile, si ricorda questo perché è una costante nella filmografia di Monicelli, ma io credo che qui i personaggi di Gassman e Sordi, vadano in senso esattamente opposto. Infatti, l’eroismo finale di Busacca e Jacovacci non è il riscatto sul filo di lana dei vizi italici, non lo è perché non è un gesto fatto per esaltare il patriottismo, il legame al valore del dovere, ma piuttosto la descrizione di una dignità individuale, che questi soldati/popolo si portano dietro. La dignità di uomini che non vedono e non riconoscono il nemico perché loro non hanno nemici, perchè sono costretti ad uccidere ed a essere uccisi, ma loro sanno di essere quelli che vivono la vita difficile, simile a quella di chi hanno di fronte. Il loro nemico è la fame, il lavoro duro e gramo. Voglio riportare qui un brano del diario che mio nonno scrisse prima di morire proprio nel 1916 sul Monte Sabotino:“….Quando fummo nella nostra trincea fu fatto un sorteggio per andare ad accompagnare i 43 prigionieri in un vicino paese ove era il commando d’Armata. In mezzo a questi sorteggiati ci fui anch’io e dopo avuto le istruzioni del nostro capitano ci si mise in marcia colle baionette sui fucili facendo scorta ai prigionieri. Dopo un’ora di marcia si fece breve riposo per mangiare un po’ di pane che era due giorni che non si cibava. Ad un momento io lascio il mio posto per allontanarmi per un bisogno, depongo a terra fucile e tascapane. Ritornato dopo poco vado per mangiare un po’ anch’io, ma con mia sorpresa non trovo la pagnotta che tenevo da due giorni nel tascapane. Sorpreso di questa sparizione mi rassegno e domando un po’ di pane ai miei compagni. Me la diedero e insieme a loro mangiai una scatola di carne. Ad un tratto volsi l’occhio al plotone prigionieri, e con mia grande sorpresa vidi uno dei prigionieri che mangiava a doppia bocca una delle nostre pagnotte. Mi immaginai allora che il mio pane l’aveva preso lui giacchè era vicino al posto ove era la mia armatura. Allora ci domandai dove l’aveva presa, e mi segnò il mio posto, scusandosi, in buon italiano dell’atto. Ma lui mi disse che fu spinto dalla gran fame che teneva da tre giorni. Poi mi disse che era di Ala e di fatti parlava benissimo come io l’italiano. Disse anche era padre di cinque figli che aveva lasciati a casa quando fu costretto dalle leggi tedesche di andare sotto le armi a combattere contro di noi. Mi fece tale compassione che dopo ci diedi una mezza scatola di carne che se la mangiò con il resto della pagnotta. Poco dopo ci si mise in marcia di nuovo e…”.
Dunque Monicelli ci restituisce un’immagine, un ricordo di un’ Italia che non entra nei libri di storia, se non come numeri utili alla contabilità tragica dei morti. Non i vizi di un’italietta stereotipata, ci parla invece di uomini la cui vita è spesa solo per una grama sopravvivenza. E’ proprio per questo che mi piace questo film. Busacca Giovanni e Oreste Jacovacci non sono altro che noi stessi dentro alba della storia di questo paese. Passeranno ancora molti anni prima dell’emancipazione dai bisogni dei Busacca e Jacovacci, ma loro non saranno passati invano.

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