domenica 5 ottobre 2008

Pirati dei Caraibi

Pirati dei Caraibi - La maledizione del forziere fantasma di Gore Verbinski. USA, 2006. Interpreti: Johnny Depp, Orlando Bloom, Keira Knightley



Manuela 17 agosto su Abbracci e Popcorn

Ieri sera sono andata al cinema. “Pirati”, che mi era stato caldamente consigliato dalle mie figlie come cosina leggera, proprio niente di impegnativo, divertente anche, adattissimo a Ferragosto e, in più, con il grande pregio di avere come protagonista Johnny Depp, che si lascia volentieri guardare, ed è anche bravo.
Si, si, tutto vero, solo che non è un film, è un videogame. Questa frase l’avevo sentita dire da Sissi, parlando di “300”, e allora non avevo capito bene quello che intendesse. Adesso lo so.

Come un in un videogame, il senso è:
assolvere un compito, facendo un dato percorso, abbattendo un certo numero di nemici, aiutato da un certo numero di amici, utilizzando un certo numero di oggetti magici. Il compito è salvare il vecchio padre. Il premio è la conquista della bella.
Durante il percorso si possono raccogliere bonus – ad esempio mappe, pozioni, ecc. – che servono in caso di difficoltà. Ad esempio, se, ad un certo punto, il protagonista viene abbattuto, gli “amici”, utilizzando adeguatamente tali bonus possono andare a prelevarlo nell’al di là; al peggio, game over, si ricomincia.
A differenza di un film – anche quelli da estate, senza troppe pretese - la trama è inesistente, e i personaggi non hanno alcuno spessore psicologico, ma non perché il regista non ci sappia fare, al contrario, devono essere proprio così: non sono “buoni” o “cattivi”, poiché l’esser tali è solo una convenzione, basta scambiarsi i ruoli con l’amico/avversario, come fanno i ragazzi davanti alla consolle, e il gioco può continuare all’infinito. L’andare e venire da un luogo all’altro ha il senso di un succedersi di videate – tecnicamente bellissime, ma altrettanto piatte - in cui quello che conta è dimostrare la propria abilità nello sconfiggere i nemici. Come Lara Croft (chiedo venia, è l’unica che mi ricordo) agli ordini dei tasti di un computer, i personaggi fanno cose mirabolanti e ripetitive (poiché le possibilità di una tastiera non sono infinite): saltano, sparano, schivano, e quando qualcuno viene colpito ci si aspetta di vedere sullo schermo la striscia rossa lampeggiante che indica che le vite a disposizione sono diminuite. I feriti non sono veri feriti (nemmeno nel senso che la “verità” può avere nel cinema), i morti non sono morti.
Confesso che me ne sono dormita un bel po’. Del resto, che pathos e che suspence può avere un videogame? Stare davanti ad un video a vedere qualcun altro che gioca è sommamente noioso: non ho niente contro i videogame, anzi, ma alla tastiera voglio starci io, altrimenti che gusto c’è?
Lodes, uscendo dall’arena gradevolmente estiva, commenta scuotendo la testa, che il cinema ha finito la sua funzione, e che le storie si racconteranno con altri mezzi e con altre tecniche. Forse ha ragione. D’ora in avanti, però, solo cose d’antan…

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